CORSO NOVECENTO_Chiara Autilio_Mito e storia nell'opera di Vittorini

Mito e storia nell’opera di Vittorini

Chiara Autilio

Lezione di mercoledì 6 aprile 2016

 

 

Pare essere connotato tipico della cultura siciliana impastare mito e storia per trarre una sostanza narrativa inusuale: così Verga, lungi dall’essere un coerente verista, innerva certe vicende di miti (si pensi alla novella “la Lupa”): questa tradizione è cara anche a Vittorini, scrittore siracusano appartenente alla corrente letteraria del Neorealismo, e si ripresenta poi in Bufalino e Consolo. .

Soprattutto il legame ctonio, mitico con la terra d’origine, tema centrale in Conversazione in Sicilia (l’opera più importante di Vittorini) mostra una serie di riscontri nella letteratura siciliana: si pensi a Verga, a Pirandello, a Quasimodo, fino a Sciascia, Tomasi di Lampedusa, Consolo . E anche i miti della fuga e del nostos sono un motivo frequentato dalla cultura siciliana: viene in mente il personaggio di ‘Ntoni nei Malavoglia di Verga, fino in epoca contemporanea in ambito cinematografico il ritorno a casa del protagonista del Nuovo cinema Paradiso di Tornatore.

Il legame mitico con le proprie origini e l’archetipo omerico del nostos sono aspetti che troviamo anche nel Neorealismo, per esempio in Pavese, ma in Vittorini prevale una dimensione più lirica.

La tendenza a ridurre i dati reali in analogie simboliche sembra avvicinare Vittorini agli Ermetici: giovanissimo infatti si legò al gruppo fiorentino della rivista “Solaria”. Ma ciò non impedisce allo scrittore di mostrare il proprio interesse per ambienti e situazioni del mondo popolare e di schierarsi a favore degli offesi e delle vittime, entrando nel vivo della storia. Per l’intreccio mito e storia agiscono anche, come in Pavese, le suggestioni degli scrittori americani che Vittorini aveva tradotto: Faulkner, Hamingway, Saroyan. E le foto sulla Sicilia scattate dallo stesso autore nell’edizione del ’53 di Conversazione in Sicilia, secondo un’operazione che rimanda a Verga, non rispondono a un intento puramente documentaristico, ma dimostrano come verità e simbolo siano strettamente collegati. Tutto il romanzo sembra rifarsi a queste foto, mostrando un forte potenziale iconico, con una ricorrenza insistita di bianco e nero e di primi piani. Lo straordinario impasto di mito e storia pervade tutto il narrato di Vittorini, a partire da Piccola borghesia, a Garofano rosso, a Viaggio in Sardegna, a Erica e i suoi fratelli, ma io mi soffermerei su tre romanzi, dove esso appare particolarmente evidente: Conversazione in Sicilia, Uomini e no, Le donne di Messina.

In Conversazione in Sicilia, che esce in rivista nel ’38, poi in volume nel ’41 e nell’edizione illustrata nel ’53, è molto forte questo intreccio di mito e storia. Il romanzo si apre con la presentazione del clima storico in cui nasce il libro, siamo durante la guerra di Spagna. Il protagonista è Silvestro, un tipografo siciliano che vive a Milano: egli assume il carattere universale dell’uomo in generale, oppresso dalla cappa plumbea del fascismo, e in preda ad “astratti furori”, non determinati da fatti particolari o da ingiustizie subite personalmente, ma causati dall’irrimediabile degrado che vede intorno a sé, un furore senza speranza e quindi inerte, quieto, che non consente alcun gesto risolutore, ma solo un amaro canto di dolore.

 

 

Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi sono messo a raccontare. Ma bisogna dica ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero col capo chino. Vedevo manifesti di giornali squillanti e chinavo il capo; vedevo amici, per un’ora, due ore, e stavo con loro senza dire una parola, chinavo il capo; e avevo una ragazza o moglie che mi aspettava ma neanche con lei dicevo una parola, anche con lei chinavo il capo. Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l’acqua che mi entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete.

Questo era terribile: la quiete nella non speranza. Credere il genere umano perduto e non aver febbre di fare qualcosa in contrario, voglia di perdermi, ad esempio, con lui. Ero agitato da astratti furori, non nel sangue, ed ero quieto, non avevo voglia di dire nulla.

 

 

Il passo, come tutto il romanzo, è caratterizzato da molte ripetizioni, che conferiscono un carattere ieratico, quasi sacrale, al narrato, rendendo astratto e rituale tutto il racconto. Da questa situazione di paralisi deriva l’impulso ad un viaggio alla ricerca delle proprie radici. Silvestro reagisce al sentimento cupo di impotenza, prendendo il primo treno per la Sicilia e ascoltando il confuso appello che la sua terra sembra lanciargli, nel quale è contenuta la promessa di un ritorno alla felicità, identificabile con l’infanzia.

 

 

Al suo viaggio Silvestro è spinto da una lettera che riceve da suo padre, ma soprattutto dalla percezione confusa e inquieta che lo lega al proprio passato e allora ecco il ricordo della sua terra affidato alla transitività del verbo Pensai Sicilia e all’evidenza immediata del suo ricordare “montagne in essa”. Il desiderio del passato è reso dalla metafora allusiva e fiabesca del piffero e dei topi che rimanda al Flauto magico.

 

 

“Andavo al lavoro tutte le mattine, per il mio mestiere ... e un piffero suonava in me e smuoveva in me topi e topi che non erano precisamente ricordi.

Non erano che topi, scuri, informi, trecentosessantacinque e trecentosessantacinque, topi scuri dei miei anni, ma solo dei miei anni in Sicilia, nelle montagne, e li sentivo smuoversi in me...”.

 

 

Lo schema narrativo di Conversazione in Sicilia è quindi quello canonico del viaggio ma capovolto: non narra l’uscita del protagonista dal nido, dallo stato d’innocenza per compiere l’esperienza del mondo e soprattutto della storia e della società, ma è l’itinerario inverso dell’uomo della città che vive dove si fa storia, (“Vedevo manifesti di giornali squillanti...” “massacri su manifesti dei giornali”) con un lavoro, una moglie, una cultura, verso la terra d’origine dove ci sono la madre, Concezione, custode del nido, e l’infanzia (“mi venne una scura nostalgia, come di rivivere la mia infanzia”).

Silvestro ha trent’anni, l’età della consapevolezza è raggiunta, ma la maturità è una non vita; di qui il distacco da Milano e il viaggio verso le origini, che è quindi una specie di viaggio di Robinson alla rovescia: non dall’isola sconosciuta alla civiltà, ma alla ricerca dell’isola originaria. Il mito dell’homo faber ha ormai perso di valore e di significato, il Robinson vittoriniano cerca l’assenza della società civile, secondo uno schema che è il rovesciamento del Bildundgroman. Per Vittorini, come anche per altri narratori ottocenteschi e novecenteschi, l’esperienza del mondo civilizzato è traumatica: viene in mente Renzo che si perde a Milano o ’Ntoni, che una volta irretito dalle seduzioni della vita della città del continente, non si adatta più alla dimensione del paese e questo determinerà la sua rovina. Anche Giorgio Aurispa nel romanzo dannunziano Il trionfo della morte torna, come Silvestro, dal mondo cittadino alla sua terra d’Abruzzo, ma solo per verificare il senso di malattia, disfacimento e morte che sta pervadendo la sua terra. Invece Silvestro, a differenza di Giorgio Aurispa, capisce che bisogna ripercorrere la vicenda a ritroso e rientrare nel grembo materno per rinascere una seconda volta. Incomincia allora il viaggio iniziatico del protagonista: attraverso un “punto di vista” mobile, viene descritto il viaggio in treno con i piccoli siciliani curvi, verso i quali Silvestro avverte un sentimento di intima fratellanza e in cui si “riconobbe ragazzo”, un viaggio che lo porterà ad esplorare la “quarta dimensione” della Sicilia. In treno il sapore di un formaggio siciliano, che egli mangia, basta per suscitare in lui un’associazione psichica alla sua terra che si colora di mito. E dal dialogo con i Siciliani incontrati sul treno, si esprime la gioia della primigenia scoperta dei nomi e delle cose (i paesi siciliani, il pane, il pesceduovo ...).

 

 

(“E andate a Sciacca di qua?” “Sì di qua” – disse lui – “Siracusa, Spaccaforno, Modica, Garrisi, Donnafugata ...”. “Vittoria, Falconara”, io dissi “Licata”. “Aaah!” lui disse. “Girgenti” [...]. “Pane” disse. “Eh! Eh!”. Poi prese fuori una lunga frittata e di nuovo sorrise. “Pesceduovo!” disse. Io gli sorrisi in risposta.

 

 

Ma l’autore avverte che la Sicilia che inquadra Conversazione è solo per avventura Sicilia, “solo perché il nome Sicilia mi suona meglio del nome Persia o Venezuela”, sottolineando il valore assoluto, metastorico, astratto dell’esperienza.

L’arrivo al paese segna l’inizio di una fase nuova del racconto.

Ma guarda, sono da mia madre”, pensai di nuovo, e lo trovai improvviso esserci, come improvviso ci si ritrova in un punto della memoria, e altrettanto favoloso, e credevo di essere entrato a viaggiare in una quarta dimensione”.

La signora apparve alta con la testa chiara, e io riconobbi perfettamente mia madre, una donna alta coi capelli castani quasi biondi, e il mento duro, il naso duro, gli occhi neri”.

 

 

L’incontro con la madre, Concezione, avviene in cucina, uno spazio umile, realisticamente connotato, attraverso un linguaggio che comunica per emozioni: nell’ambiente domina il contrasto cromatico bianco – nero, come nelle foto che accompagnano l’ edizione del ‘53 di Conversazione in Sicilia e compare in primo piano l’aringa che la madre sta arrostendo insieme ai cardi, alle fave, ai pomodori secchi, alle lenticchie che evocano l’infanzia e l’innocenza. “Altroché! Eri come Esaù ... Avresti dato la primogenitura per un piatto di lenticchie!”.

Il ricorso all’infanzia rimanda a Leopardi: basti pensare alle pagine dello Zibaldone sulla memoria, ma ha largo peso nella letteratura decadente e novecentesca: viene un mente Proust nella Recherche, o Pascoli nel Fanciullino e in molte liriche, come L’aquilone, o ancora Saba nelle poesie del piccolo Berto.

In Vittorini questa dimensione non è mezzo di un’evasione dal presente verso il passato ideale, ma è l’immagine della positività, solo però a confronto con le immagini negative del male del presente che sta attanagliando la società. L’infanzia, ci dice esplicitamente l’autore, non è ritrovata come un’età passata, chiusa in se stessa e trasfigurata in un momento di vita piena e felice, che non è più possibile far rivivere nella realtà di oggi. L’infanzia, anzi, nella sua capacità di “reagire, essere presente” viene calata nella dimensione attuale al fine di infondere in essa un’atmosfera di verità più alta. La madre che Silvestro ritrova dopo quindici anni nella sua Sicilia è la madre di oggi. e di ieri, è insieme Donna e Madre, figura che tende all’astrattezza del simbolo, pur restando concretamente se stessa.

 

 

Era questo mia madre, il ricordo di quello che era stato quindici anni prima, venti anni prima, quando ci aspettava al salto del treno merci giovane e temibile, col legno in mano; il ricordo e l’età di tutta la lontananza, l’in più d’ora, insomma due volte reale”.

 

 

Nell’ambiente quotidiano, umile ma accogliente della cucina, la madre inizia quindi un dialogo con Silvestro, in cui ricorda il passato, quando si preparavano le aringhe, i peperoni, i mostaccioli, la mostarda; in Silvestro il ricordo dei cibi si mescola a quello del paesaggio: “Ricordavo inverno, la grande solitudine nella campagna tonda, senz’alberi, senza foglie e la terra che odorava, invernale, come un popone”.

 

 

Concezione diventa così l’emblema delle leggi di natura e rappresenta un’eliminazione progressiva della cultura cittadina e della società evoluta dove ci sono tipografie, giornali, impossibilità di comunicare.

La donna parla poi con disprezzo della vigliaccheria del marito, contrapposto dicotomicamente alla figura di suo padre, “un grand’uomo, un gran cavaliere e un contadino che poteva zappare la terra diciotto ore al giorno e aveva coraggio e faceva tutto lui quando la mamma partoriva”.

Il nonno diventa così la figura dell’Uomo che fa venire in mente a Silvestro il Gran Lombardo incontrato in treno, personaggio che incarna i valori della forza primigenia, nonché la aspirazioni storiche all’impegno nel mondo che sono tipiche di Silvestro/Vittorini.

La madre poi gli racconta della sua nascita e di quella del fratello, sempre attraverso a un dialogo rallentato, con frequenti ripetizioni, rese da una paratassi atemporale che infonde alla vicenda una dimensione fiabesca.

Concezione per vivere fa l’infermiera, e la terza parte di Conversazione in Sicilia è tutta occupata dalla descrizione del giro dei due, madre e figlio, per il paese a fare iniezioni ai diversi ammalati, che è un pellegrinaggio fra i più spaventosi spettacoli di miseria, sullo sfondo del paesaggio di una Sicilia ridotta a dimensione di presepe.

 

 

Gli orti erano minuscoli: apparivano più sopra fra tetto e tetto, come recipienti con verdure: e per la strada c’erano capre infingarde al sole; nell’aria fredda c’era musica di zampogne con tintinnio di capre. Era una piccola Sicilia ammonticchiata, di nespoli e di tegole, di buchi nella roccia, di terra nera, di capre, con musica di zampogna che si allontanava dentro a noi”.

 

 

In questo giro con la madre, Silvestro, incontrando due giovani donne, vi proietta il ricordo di belle odalische che gli proviene dalla lettura nell’infanzia di “Le mille e una notte”.

 

 

È una fortuna aver letto quando si era ragazzi. È doppia fortuna aver letto dei libri di vecchi tempi e vecchi paesi, libri di storia, libri di viaggio, Le mille e una notte in special modo. Uno allora può ricordare quello che ha letto come se lo avesse in qualche modo vissuto, e uno ha la storia degli uomini e tutto il mondo in sé come la propria infanzia”.

Ma soprattutto, nel giro delle iniezioni, Silvestro entra a contatto con un’umanità di miseria e di sofferenza, come si può vedere nella casa del vecchio malato: qui Silvestro scopre che l’uomo è più uomo se soffre: “Un uomo poteva gridare come un bambino, nella miseria, e essere più uomo”.

La venuta al paese, le vicende che la madre racconta di sé, del marito, del padre, dei figli costituiscono la prima tappa della comprensione della condizione di natura, fatto che raggiungerà il suo compimento nell’incontro di Silvestro con Ezechiele, il sellaio, e con Calogero, l’arrotino.

Il passo rivela l’impegno storico di Vittorini, ma tale impegno non va rintracciato su di un terreno documentaristico ma mitico.

L’arrotino e il sellaio assurgono a verità assolute, svincolate dal contingente.

Silvestro nella quarta stazione del suo viaggio iniziatico incontra dapprima Calogero, l’arrotino: la sua immagine si staglia nera sullo sfondo della luce abbagliante a marcare il contrasto chiaro-scuro, come in una foto in bianco e nero; va gridando “Arrota, arrota ...” “Nulla da arrotare?”.

Si sviluppa un dialogo con Silvestro, tutto articolato su di un linguaggio simbolico, dove lame, coltelli, punteruoli stanno a significare la rivolta contro l’ingiustizia e l’oppressione. Calogero rappresenta infatti l’ideologia rivoluzionaria e la domanda dell’arrotino: “Credete che esistano ancora coltelli e forbici a questo mondo?” vale dunque: “Vi sono ancora dei rivoluzionari?”, oppure: “C’è ancora qualche speranza di rivoluzione?”.

 

 

Gli domandai: - Non avete molto da arrotare, in questo paese? –

- Non molto di degno, - l’arrotino rispose. E sempre mi guardava, mentre le sue dita ballavano, con la piccola lama tra esse, nel turbinio della ruota; ed era ridente, era giovane, era un simpatico tipo di magro sotto il vecchio copricapo da spaventapasseri.

- Non molto di degno, - disse. – Non molto che valga la pena. Non molto che le faccia piacere.

- Arroterete bene dei coltelli. Arroterete bene delle forbici, - dissi io.

E l’arrotino: - Coltelli? Forbici? Credete che esistano ancora coltelli e forbici a questo mondo?

E io: - Avevo idea di sì. Non esistono coltelli e forbici in questo paese?

Scintillavano come bianco di coltelli gli occhi dell’arrotino, guardandomi, e dalla sua bocca spalancata nella faccia nera la voce scaturiva un po’ rauca, d’intonazione beffarda. – Né in questo paese, né in altri, - egli gridò. – Io giro per parecchi paesi, e sono quindici o ventimila anime per le quali arroto; pure non vedo mai coltelli, mai forbici”.

 

 

Dalla piazza, la scena si sposta poi nella bottega del sellaio. L’ingresso nella bottega del sellaio è una discesa nel cuore puro della Sicilia, non ancora contaminato dalle offese del mondo: Silvestro ripercorre un cammino dalla luce alle tenebre del ventre materno e alla fine si riappropria dell’innocenza.

Come molti eroi classici, scende agli inferi, dove impara dal custode Ezechiele che il mondo è molto offeso, ma non dappertutto. L’offesa del mondo è dunque un fatto storico, non una realtà assoluta contro cui è vano lottare, come gli era apparso nella dimensione della città.

 

 

L’odore era buono, in quel cuore nostro, era, per le invisibili corde e i cuoi, come di polvere nuova, terreno, ma non ancora contaminato dalle offese del mondo che si svolgono sulla terra. Ah, io pensai, ah se davvero credessi in questo... E non era come se andassi sottoterra, era come se andassi nella traiettoria dell’aquilone, avendo l’aquilone negli occhi e perciò non avendo altro, avendo buio, e avendo il cuore dell’infanzia, siciliano e di tutto il mondo”.

 

 

Punto chiave dell’episodio è che gli uomini non devono chiudersi nel loro egoismo, ma solo coalizzandosi in modo solidale, possono eliminare il dolore dell’umanità e cambiare il mondo.

 

 

L’uomo Ezechiele si mise a riepilogare: - Il mondo è grande ed è bello, ma è molto offeso. Tutti soffrono ognuno per se stesso, ma non soffrono per il mondo che è offeso e così il mondo continua ad essere offeso”.

 

 

Le battute elementari, le continue ripetizioni, di sapore biblico, conferiscono un tono sacrale al passo e sottolineano implicitamente l’urgenza di rifare la storia a partire dallo stato di natura con echi non troppo lontani dal progetto di “rifare l’uomo” enunciato da Quasimodo in Uomo del mio tempo. E la reimmersione nel cuore dell’innocenza permette di comprendere le ragioni dell’offesa e di agire perché essa cessi. Ezechiele è allora il depositario delle offese del mondo e attraverso di lui è chiarita la funzione della scrittura, cioè esporre la vicenda di tutte le ingiustizie che il mondo ha subito.

 

 

Bene, al nostro amico puoi dirglielo. Digli che come un eremita antico io trascorro qui i miei giorni su queste carte e che scrivo la storia del mondo offeso. Digli che soffro ma che scrivo, e che scrivo tutte le offese una per una, e anche di tutte le facce offensive che ridono per le offese compiute e da compiere”.

 

 

Nel fondo dell’itinerario agli inferi giungono quindi rivelazioni importanti: la letteratura come denuncia dello stato autentico della realtà e la purificazione dell’offesa del mondo nel contatto con la natura e la purezza (“Solo l’acqua viva può lavare le offese del mondo e dissetare l’uman genere offeso”, e quell’acqua diventa un elemento sacrale): il nostos di Silvestro è allora una rinascita a nuova vita dopo essere passato nel buio corridoio con Ezechiele, dopo essersi sporcato di polvere e di terra, il che gli consente di percorrere in modo nuovo il viaggio verso la coscienza e la conoscenza.

Anche nei Malavoglia centrale è il tema del ritorno, denso di richiami simbolici: ma per ‘Ntoni, il nostos è negato perché nell’etica dei Malavoglia chi tradisce l’ideale dell’ostrica non può essere reintegrato: il paese tutto nero, con le sue voci e i suoi rumori , il mare che da bianco si è fatto amaranto, il cane che non lo riconosce sono simboli che sembrano marcare la sua esclusione da quel mondo ciclico e arcaico che egli ha abbandonato. Nell’addio ’Ntoni ritrova ancora un rapporto simbiotico con il mare perché “il mare non ha paese nemmeno lui”, ma anche di alterità perché esso, come le costellazioni, è l’emblema del mondo ciclico di Trezza che egli ha tradito; dopo essere tornato, pieno di rimorsi, deve perciò ripartire, dando l’addio al premoderno per essere assorbito nel moderno. Già Alfio, d’altronde, era tornato da un viaggio nell’ignoto per constatare che ormai tutto era cambiato: “Quando uno lascia il suo paese, è meglio che non ci torni più”.

Il nostos alle origini, l’impossibilità di reinserirsi, il ricordo, l’esclusione, l’intreccio di realismo e di simbolismo, la presenza di oggetti simbolo sono aspetti che suggeriscono un accostamento anche con La luna e i falò di Pavese.

Anguilla, un trovatello cresciuto a Santo Stefano Belbo nelle Langhe, torna nei luoghi di origine, dopo essere emigrato in America, ma anche questo nostos è negato: le persone da lui conosciute sono in parte scomparse, i luoghi sono diversi, all’innocenza adolescenziale fa da contrappunto l’età della consapevolezza, i falò gioiosi di prima della guerra si sono tramutati nel rogo in cui viene bruciato il corpo di Santina. “Che resta?” è quindi l’angosciosa domanda che ritma come un refrain La luna e i falò.

Silvestro può invece realizzare questo nostos e scopre che il mondo è offeso, ma non nel cuore della Sicilia. La quarta dimensione dell’isola consente allora di ripartire da zero: solo nella terra madre, nella magna mater, luogo carico di simboli, è possibile per Silvestro recuperare la propria identità e proclamare parole di speranza, una volta passato per i corridoi di Ezechiele e rinato a nuova vita.

Egli è l’eroe che muore e che risuscita, che entra nel fiabesco ventre della balena e ne esce dopo i canonici tre giorni e tre giorni dura appunto la sua conversazione in Sicilia, come si legge nell’ Epilogo del romanzo: “Questa fu la mia conversazione in Sicilia, durata tre giorni e le notti relative, finita com’era cominciata”.

Nella parte conclusiva del romanzo, in un’atmosfera arcana e surreale, Silvestro ha un dialogo notturno con il fratello Liborio morto in Spagna su un campo di battaglia e che rappresenta tutti i giovani morti come lui. Silvestro cerca di persuadere la madre che è stata fortunata ad aver avuto come figlio un eroe, così come lo era stata la madre dei Gracchi, ma Concezione non si lascia persuadere: “Tu mi hai imbrogliato con quella Cornelia”, dice, ribadendo che Cornelia poteva essere fortunata perché i figli erano morti per una giusta causa in difesa dei poveri, non in una guerra di oppressione.

Come segnala il Luperini, “qui Silvestro, in quanto intellettuale è ancora diviso fra la storia ufficiale, che lo indurrebbe a ritenere fortunata la madre perché ha generato un eroe, e quella degli oppressi”. Anche dinanzi alla statua indifferente della donna di bronzo, emblema dei caduti, ma anche degli anni del fascismo, Silvestro assume il punto di vista della storia ufficiale, sostenendo che “i caduti non sono morti comuni, non appartengono al mondo ed hanno questa donna per loro” e che “in questa donna noi li celebriamo”, ma le sue affermazioni vengono fermate dalla parola “suggellata” di Liborio: “Ehm”, che può essere intuita solo dai poveri, da coloro che soffrono, e da chi sta dalla loro parte come il Gran Lombardo, simbolo di un’umanità forte. L’ “ehm” di Liborio corrode la storia ufficiale denunciando, come aveva fatto prima Concezione, l’ “imbroglio del regime fascista”, in cui sono incorsi i fascisti di sinistra come Vittorini, quando Mussolini aveva partecipato alla guerra di Spagna a fianco di Franco.

Alla fine del romanzo tutti i personaggi si riuniscono intorno a Silvestro ai piedi della donna di bronzo per ribadire che il mondo è offeso, ma che l’uomo è “più uomo” quando è oppresso e perseguitato.

Dal romanzo Conversazione in Sicilia i registi francesi Huillet e Straub hanno girato nel 1998 un film, Sicilia!, presentato al Festival di Cannes. La pellicola nasce come recita teatrale: viene infatti rappresentata al teatro Francesco di Bartolo a Buti (siamo nell’aprile del 1998). I registi, secondo un’operazione già compiuta da Visconti nella Terra trema, hanno cercato persone che volessero recitare: si tratta di attori che non erano mai andati sulla scena. Alcune parti del libro vengono completamente eliminate e il film è costituito da poche sequenze (“costellazioni”): la partenza del protagonista dal porto (e non da Milano, come nel romanzo), il viaggio in treno, le sequenze dei paesaggi siciliani, simili a un suolo lunare, il dialogo con la madre, il dialogo con l’arrotino.

Con i suoi personaggi attaccati alla terra, con le sue cadenze da tragedia antica, con i suoi scorci paesaggistici, il film, come il libro, riporta a un mondo arcaico. Una luce forte scolpisce i personaggi del film, tutto in bianco e nero, come le foto scattate da Vittorini, come i colori dominanti nel romanzo; d’altronde l’autore scrisse nel ’36: “Potrà mai il colore sostituire le sfumature innumerevoli del bianco e nero?”. Una luce cruda, violenta stacca a forza i neri dai bianchi, consentendo ai personaggi di muoversi e di parlare come in una scacchiera. Anzi di cantare. Perché il film diventa con la poetica prosa dei suoi dialoghi, un canto, dove ogni parola fa emergere una dimensione incantata che risuona come una preghiera: la povertà, la fame, la tristezza vengono raccontate attraverso i dialoghi e le fitte enumerazioni, con l’eliminazione di tutti i monologhi presenti nel libro. Sicilia! diventa una riflessione quanto mai attuale su tutta l’Italia, sul mondo offeso, in un impasto di mito e storia che ricorda La terra trema di Visconti.

SEQUENZE FILM SICILIA!

 

 

L’ideologia del mondo offeso per cui “non ogni uomo è uomo”, ma alcuni (coloro che soffrono) sono più uomini e altri (gli oppressori) meno uomini, torna anche in Uomini e no, romanzo pubblicato nel 1945.

Vi si narra la storia di un partigiano intellettuale, Enne 2, (di chiara proiezione autobiografica) che, per caso, una mattina ritrova la donna di cui è innamorato la quale, sposata, ma infelice, è trattenuta dal senso di responsabilità coniugale. Enne 2 compie un attentato nella sede del tribunale in cui vengono uccisi sei uomini. Seguono rappresaglie tedesche, nuovi attacchi partigiani e altre rappresaglie tedesche per cui vengono uccisi anche i civili. Intanto il capo delle SS Clemm e il capo fascista Cane Nero si accordano per la fucilazione di cento uomini prigionieri nel carcere. Enne 2, in reazione a questi fatti, guida un nuovo attentato, ma viene riconosciuto: potrebbe fuggire, ma decide di non farlo nella vana speranza di incontrare Berta ed eventualmente scappare con lei.

 

 

In Uomini e no è evidente il tentativo di rendere assoluti fatti e personaggi che conservano tutte le loro connotazioni storiche. Lo vediamo nell’aspetto che assumono certi personaggi, manicheisticamente divisi in buoni e cattivi (uomini e no, appunto), come Enne 2 o i patrioti, voci di un coro ispirate anche nei nomi all’eroismo classico: Gracco, Coriolano, Scipione, che stanno da una parte e Cane Nero che sta dall’altra.

Enne 2 partecipa alla Resistenza per fare la storia con gli uomini, contro chi è meno uomo. Ancora più che in Conversazione in Sicilia è chiarito il tema dell’offesa del mondo, che si manifesta nelle atrocità perpetrate dal fascismo a cui tutti i poveri personaggi della Milano operaia oppongono resistenza, in contrasto con i non uomini, come si può notare nell’episodio in cui un ufficiale nazista, Clemm, fa sbranare dai suoi cani un povero venditore ambulante, colpevole di avergli ucciso la cagna Greta. Dopo un interrogatorio serrato, in cui il capo delle SS sembra voler sapere il vissuto di Giulai, solo per conoscere quello che stava distruggendo, senza che la vittima avesse la percezione di quanto stava per accadere, l’ufficiale nazista ordina alla cagna di colpire Giulai alla gola.

 

 

Gli stracci, allora, furono portati via dai ragazzi biondi per un ordine del capitano, quello dal grande cappello agitò nel buio il suo scudiscio, lo fece due o tre volte fischiare.. “Fscì”, fischiò lo scudiscio.

Fischiò sull’uomo nudo, sulle sue braccia intrecciate intorno al capo e tutto lui che si abbassava, poi colpì dentro a lui. Guardò chi lo colpiva, sangue gli scorreva sulla faccia, e la cagna Gudrun sentì il sangue.

Fange ihn! Beisse ihn!” disse il capitano.

Gudrun addentò l’uomo, strappando dalla spalla.

An die Gurgel!”, disse il capitano.

 

 

Sullo sfondo sta il gruppo dei militi fascisti che fanno vacue considerazioni, come quella sul valore di quella la razza di cani (valevano. Non valevano), i quali restano indifferenti di fronte all’atrocità, rivelando un’altra forma non meno riprovevole di disumanità.

La narrazione è condotta in forma serrata, affidata a brevi battute di dialogo, talora ripetute al fine di aumentare la suspence; ad essa si affianca subito dopo un capitolo in corsivo, a cui sono affidate le riflessioni dell’autore. Nel corsivo l’opposizione bene – male si problematizza.

Uomo è chi è oppresso , perseguitato, chi si ribella a tale oppressione, come i Gruppi di Azione patriottica, ma attraverso le interrogative finali, ispirate all’oratoria sacra, l’autore si chiede se non faccia parte dell’uomo anche il male.

Noi abbiamo Hitler oggi. E che cos’è? Non è un uomo?Abbiamo i tedeschi suoi. Abbiamo i fascisti. E che cos’è tutto questo? Possiamo dire che non è, questo anche, nell’uomo? Che non appartenga all’uomo? Abbiamo Gudrun, la cagna. Che cos’è questa cagna?Abbiamo il cane Kaptan Blut. Che cosa sono questi due cani? E il capitano Clemm, che cos’è? E il colonnello Giuseppe – e – Maria? E il prefetto Pipino? E Manera Milite? E i militi? Noi li vediamo. Sappiamo che cosa possono dire e che cosa possono fare. Ma che cosa sono? Non appartengono all’uomo?”.

 

 

Se Enne 2, che ha compreso la verità della storia, è assimilabile a Silvestro, ritornato dalla conversazione in Sicilia e reso esperto dalla condizione offesa del mondo, la conclusione dei due romanzi è però diversa, più negativa in Uomini e no: Enne 2 alla fine decide di uscire dalla storia: quando sa di essere cercato, gli amici lo persuadono a partire, ma egli resta, aspettando vanamente Berta e pensando a lei bambina. Conta di più essere accanto ai padri che si sono perduti, combattendo e resistendo che lottare per la liberazione; conta resistere per resistere, senza prospettive di trionfo e questo emerge nel dialogo con un’amica partigiana, Lorena.

 

 

Questo forse era il punto: Che si potesse resistere come se si dovesse resistere sempre, e non dovesse esservi mai altro che resistere. Sempre che uomini potessero perdersi, e sempre vederne perdersi, sempre non poter salvare, non potere aiutare, non potere che lottare o volersi perdere. E perché lottare? Per resistere. Come se mai la perdizione ch’era sugli uomini potesse finire, e mai potesse venire una liberazione. Era per resistere. Era molto semplice”.

 

 

Enne due lotta, resiste, sta dalla parte di chi è offeso, di chi si perde, ma non si aspetta vittorie, liberazioni, passaggio nella schiera di chi domina. Egli si colloca così nella dimensione dell’antistoria, nella quale ci si perde. Nella dinamica della storia non c’è solo combattere e vincere, c’è anche combattere e perdere e questa è la scelta di Enne 2, vittima come tanti suoi compagni, dell’offesa del mondo, eppure tenace nel resistere senza futuro di gloria, senza monumenti e senza medaglie: Enne 2 mostra quindi la stessa idea di storia di Concezione, la madre di Silvestro.

Resta allora ad attendere Cane Nero, che diventa l’emblema del male universale: “E Cane Nero, quando entra, è tutti i cani che sono stati, è nella Bibbia e in ogni storia antica, in Macbeth e Amleto, in Shakespeare e nei giornali d’oggi”: il gesto di Enne 2 diventa allora una replica di quello di Werter.

Con la scacco di Enne 2 si chiude la storia di Uomini e no; dopo di essa, una vaga e velleitaria apertura al futuro è affidata all’operaio che ha ricevuto da lui l’estremo consiglio di “essere in gamba” come unbuon rimedio ad ogni cosa” e che, dopo un’azione partigiana in cui non riesce auccidere un soldato tedesco che eratroppo triste”, conclude l’episodio e il romanzo con una battuta, un invito all’azione concreta, capace di inserirsi nella storia: “Imparerò meglio” – disse l’operaio. –

Accanto alla dimensione storica in Uomini e no, viene riservato uno spazio significativo a quella mitica e le tecniche di scrittura utilizzate rimandano ora alla storia, ora al mito. Nel corso del romanzo si alternano 113 capitoli in tondo e 23 in corsivo; le parti in tondo sono affidate soprattutto al dialogo, secondo un modello di scrittura filmica di stampo neorealista, con una presenza narrativa ridotta la minimo. Sono riconoscibili molte riprese, interrogazioni e conferme, secondo il modello socratico di una problematicità che via via chiarendosi.

Le parti in corsivo sono segmenti metanarrativi, in cui l’autore entra in scena, dialoga con il protagonista e asseconda la sua volontà di immergersi nel passato dell’infanzia. Il corsivo impedisce la lettura diacronica e, mediante l’analessi, permette al protagonista di recuperare episodi dell’infanzia, che egli rivive in una nuova luce, per lui più gratificante, in quanto tenta di realizzare ciò che è accaduto: impedire a Berta di incontrare l’uomo che la renderà infelice.

Tu puoi impedire che incontri quell’uomo” “Impedire ogni cosa che le è accaduto?” “Puoi – gli dico – [...] Non abitava in campagna? In mezzo a un giardino? Entriamo nel giardino e chiamiamola. Puoi anche portarla in Sicilia quando lei viene. Non puoi portarla in Sicilia? Le mostri la tua casa e la tua vecchia nonna. Dividi con lei il tuo piatto di lenticchie. Lanci con lei il tuo aquilone. Non puoi portarla in Sicilia?”.

Le parti metanarrative consentono il passaggio dalla realtà al mito, in un immaginario tuffo memoriale nell’infanzia e nella Sicilia che si colora di una dimensione fiabesca, tanto che il processo di flash-back operante all’interno del corsivo di Uomini e no può essere definito processo onirico. Bellissimo è il capitolo 54 del corsivo, in cui l’autore dichiara di essere il personaggio e di condividere con Enne 2 l’infanzia: “Ora so che egli vuole la sua infanzia. Chi può dargliela se non io? È la mia”. E parte un’analessi in cui il protagonista ha dieci anni e Berta tredici: la fanciulla è in collegio a Milano, triste per la perdita di una compagna e così il bambino dalla Sicilia si reca da lei per consolarla e la porta con sé nella sua terra. L’isola diventa luogo di fiaba, gioco, mito, con la nonna, la madre, il padre del protagonista e lo sfondo ricorrente dei fichidindia. In questa dimensione onirica, il bambino presenta Berta alla famiglia dicendo che è sua moglie. La nonna allora alza la sottana, prende un libro nascosto tra le gambe, e racconta una storia d’amore tratta dalle Mille e una notte: Berta diventa una principessa cinese, che il padre di Enne 2 fa sedere su un cavallo bianco.

In Uomini e no il meccanismo dell’analessi è complicato dal fatto che non si tratta di un’evocazione di eventi tout – court, ma di una modificazione di quanto è avvenuto. Nella rievocazione dell’infanzia siciliana di Enne 2 c’è anche Berta, bambina milanese che non ha mai conosciuto Enne 2. Il lettore, che sta seguendo l’ordine temporale del racconto primo, la storia di Enne 2 partigiano, con precise coordinate temporali (“l’inverno del ’44 è stato a Milano il più mite che si sia avuto da un quarto di secolo”) viene sbalzato nella nuova dimensione spazio-temporale del racconto secondo.

In Uomini e no agiscono quindi due forze temporali in direzione opposta: quella realistica, negativa, e quella psicologica, memoriale, positiva. Inoltre, mentre nel racconto primo, l’uso dei tempi verbali

è più vario, nelle pagine del corsivo, fondate su ripetizioni, dialoghi, parti narrative, domina l’uso del presente per fissare un momento unico, irripetibile, mitico, senza progressione. Il corsivo permette allora di scandagliare l’humus da cui nasce l’opera, gli elementi emotivi, affettivi dello scrittore, il suo bisogno di recuperare, nella lontana e fredda Milano, i miti dell’infanzia e della sua terra. La dimensione mitica e onirica, perlopiù affidata al corsivo, si insinua però talora anche nel racconto primo. Dopo la strage di civili a Largo Augusto ad opera dei fascisti, Berta ed Enne 2 si incontrano e il giovane le parla di un incantesimo che avviene in lui: vederla nei momenti in cui sta per “perdersi”. “Come se un incantesimo ti faccia ritornare perché io ricominci”, poiché “quando tu ci sei non vedo nulla che sia perduto”. E la Milano, sempre topograficamente e realisticamente connotata, ora mostra un paesaggio invernale con tratti lirici: “ancora si vedeva bianco e celeste negli occhi del cielo, staccato da terra, il ghiaccio delle montagne”. In questo sfondo Enne 2 porta avanti una reverie onirica in cui la donna, già sposata, ma infelice, diventa sua moglie: “Sapevi di essere mia moglie? Non lo sapevi. E invece lo sei”, con una coincidenza di vissuti: “Tu stessa la mia infanzia” “Io anche la tua infanzia?” “Tu ogni cosa. Sei stata ogni cosa, e lo sei. [...] Mia madre e mia moglie. La mia bambina e mia moglie, le montagne e mia moglie”. E il vestito appeso nella stanza di Enne 2 lasciato da Berta dieci anni prima diventa l’oggetto simbolo, testimonianza di una lunga fedeltà, quasi avesse il potere di cancellare vissuti, esperienze, dieci anni di vita inautentica: “Enne 2 tolse giù il vestito di donna ch’era dietro la porta”. “Non vedi il tuo vestito? Non vedi che sei sempre stata mia moglie?”. Bertaviene da Enne 2 sublimata nel mito del Grande Amore e i fiori posti da Enne 2 sul tavolo, altro oggetto simbolo che rinvia al campo semantico del matrimonio e dell’amore concludono questo sogno: infatti la consapevolezza del presente “Sono pur stata qualche maledetta cosa con quell’uomo” riporta la giovane alla dimensione contingente e la sua paura cancella la fiaba di Enne 2: “Sembrava che Berta avesse paura di poter vedere le montagne di ghiaccio fuori dalle finestre o qualunque cosa già veduta, i fiori ch’erano sul tavolo, il suo stesso vestito di dieci anni prima”.

Il senso del dovere coniugale riconduce allora la donna alla realtà di sempre cancellando l’atmosfera rarefatta e sospesa dell’amore vero.

Anche di Uomini e no, con lo stesso titolo, esiste il film del 1980, con la regia di Valentino Orsini, che riprende una tematica a lui particolarmente cara, quella della Resistenza, intesa come avvenimento storico e come posizione morale (lo stesso Orsini, d’altronde giovanissimo aveva partecipato alla Resistenza). Gli attori protagonisti sono Flavio Bucci, nei panni di Enne 2 e Monica Guerritore nei panni di Berta. La colonna sonora è di Ennio Morricone.

Il film, con un minimalismo tipico della cinematografia tra anni ’70 e ’80, quando la denuncia aveva preminenza sulla forma, racconta in modo coerente al senso e al significato del romanzo, una delle pagine più drammatiche della storia italiana. La prima sequenza si apre infatti a Milano nel 1944, quando i repubblichini fanno una strage di civili e di partigiani e i loro corpi straziati vengono ripresi con un indugio di primi piani, con un linguaggio filmico che vuole testimoniare la barbarie della guerra civile. Tali indugi narrativi saranno una costante in tutta la pellicola. Il protagonista qui, come nel romanzo, viene rappresentato con la giusta equidistanza tra la freddezza del comandante e la pietas umana che lo porterà alla decisione finale di arrendersi, di “perdersi”.

La storia nel film riveste un ruolo preponderante rispetto al mito, affidato a qualche fugace rievocazione memoriale della Sicilia e alla dolcezza della triste storia d’amore con Berta, che nel film, come nel romanzo, è destinata a concludersi in modo infelice.

Nel film la dicotomia realtà-mito è affidata anche alla colonna sonora orchestrale (sono presenti oboe, clavicembalo, fiati, violini), che accompagna la narrazione: martellante, dura, onomatopeica, tesa a rappresentare i colpi di fucile e di pistola, militare, incalzante e veloce, quando rappresenta la storia; dolce e melodiosa, lenta quando fa da sottolineatura all’amore struggente tra Enne 2 e Berta e alla rievocazione della Sicilia.

SEQUENZE FILM UOMINI E NO

 

 

Nelle Donne di Messina prevale invece la dimensione storica. Il romanzo (edito nel 1949 e ripubblicato con modifiche essenziali nel ’64) intreccia due storie parallele.

La prima è quella di un gruppo di “sbandati” dalla guerra che si ritrovano in un villaggio abbandonato e distrutto sull’Appennino, in prossimità della Linea gotica, con l’intenzione di costruire insieme, dal nulla, una nuova vita sociale, fondata su di un comunismo primitivo.

La seconda è la storia dello zio Agrippa che percorre l’Italia da un treno all’altro alla ricerca della figlia, di cui non si sa più nulla, raccontando ai compagni di viaggio la sua vicenda.

Il romanzo è impostato su di una costruzione corale in quanto mette in scena una polifonia di storie, personaggi e voci.

La struttura narrativa è data dall’incrociarsi di piani e di punti di vista diversi: quello del narratore che parla in terza persona, delle testimonianze (il Registro) dirette dei protagonisti affidate a fogli di diario o alle interviste a cui sono sottoposti i componenti del gruppo di profughi per un’inchiesta, quello dello zio Agrippa che intreccia dialoghi con i compagni di viaggio e talora parla in prima persona, e quello infine della diretta narrazione delle vicende dei personaggi, affidata ai dialoghi..

Nelle prime pagine, il narratore è lo zio Agrippa, che presenta se stesso in modo da trasformarsi in personaggio “assoluto”: mentre annuncia il tema del viaggio come strumento di conoscenza delle cose, definisce la propria qualità di viaggiatore pendolare tra il Nord e il Sud.

 

 

Io sono pugliese e non ho potuto darmi requie finché non ho cominciato questo andirivieni tra Molfetta e Milano... o sono milanese e tuttavia non ho potuto fermarmi nella mia pianura... o sono un ligure del Bracco...”.

 

 

Il viaggiare da Nord a Sud o da Sud a Nord, alla ricerca di quello che rimane della nostra vita, è un dato che accomuna un po’ tutti gli Italiani del ’45-’46.

Particolarmente efficace è poi l’artificio manzoniano del registro, il documento compilato dagli stessi protagonisti del romanzo: “Lo dice un Registro che qualcuno rimasto anonimo, ma certo già provato in registrazioni, cominciò a tenere fin da principio su vecchi stampati di ufficio comunale – 2 luglio 1945. Questa chiesa è stata tagliata in due: distrutta completamente una parte e l’altra invece in perfetto stato”.

La pignoleria del cronista che si limita a registrare i fatti fa tutt’uno con il ritmo rallentato e mitico, la nudità del documento diventa primitività, assolutezza delle cose.

 

 

Poi seguirono per quattro o cinque giorni con fagotti e attrezzi o appena con un cane, o spingendosi avanti quattro pecore, gruppi d’un padre e d’un ragazzetto, una madre e un ragazzetto, due vecchi, tre sorelle e due ragazzette, tutti arrivando, fino a che furono una trentina, a piedi o in bicicletta”.

 

 

Mitico e utopistico è il tentativo di rifare da capo la storia come i Padri Pellegrini, che lasciarono la loro terra per rifondare una nuova patria. Così il gruppo di uomini, donne, vecchi e bambini cerca una nuova patria dove ricucire le offese della storia. Il villaggio distrutto in cui si trovano solo muri scalcinati, macerie, mine e spine diventa metafora della guerra e degli orrori del passato, su cui ricostruire una nuova storia diversa, fondata su altri presupposti con nuovi ordinamenti e istituzioni, ribaltamento di quelli che costituivano il mondo offeso. La volontà di cancellare il passato è evidente anche nei nuovi nomi con cui vengono battezzati i componenti del gruppo (Spine, Scarmigliata, Carlo il Calvo, Fischio, Faccia Cattiva, Unghia nera, Cerro), allegoria di un’umanità che si rinomina dopo aver cancellato storie singole di offese e di violenze.

Il nucleo di profughi prepara gli strumenti di lavoro con materiali recuperati, smina i campi, dà vita ai lavori della campagna, alle prime forme di artigianato e di commercio. Questa prima fase di vita comunitaria fa venire in mente il mito di Robinson nell’isola: bisogna industriarsi con intelligenza per sopravvivere. Tutti collaborano alla rinascita deprogetto con un lavoro incessante a cui partecipano anche le donne profondendo la stessa energia degli uomini: sono le donne di Messina, abituate a ricostruire sulle rovine del terremoto (Dice Cerro: “Caricate e scaricate. Fabbricate... Questo da noi, prima della guerra, lo facevano gli uomini soltanto. Ora anche le donne lo fanno”.

La nuova vita sociale passa attraverso tre fasi: “l’età della carriola, del carretto, del camion”, tutte scandite da istituzioni non oppressive, ma egualitarie, fondate sul comunismo di una vita “divisa tra bisogno e bisogno, prima di essere divisa tra uomo e uomo”secondo il modello rousseauniano dello stato di natura. In questi ritmi sereni di una società che si avvicina alla natura, sbocciano amori semplici, primitivi e di sapore verghiano, che ricordano quelli fra Mara e Jeli: sono gli amori fra Toma e Giralda e quelli fra Ventura e Siracusa. Tutti i componenti del villaggio restano legati alla vita comunitaria appena costituitasi, con l’eccezione di Spine, che sogna di evadere per una più piena libertà: essa si rivelerà poi un mito, come la libertà desiderata da ’Ntoni nei Malavoglia. Come ’Ntoni, tornerà al villaggio; i compagni troveranno naturale punirlo, ma poi lo riammetteranno nel consesso.

Il nuovo eden sociale creatosi viene però minato da Carlo il Calvo, compagno di viaggio dello zio Agrippa, elemento di collegamento delle due vicende parallele del romanzo, personaggio negativo, subdolo, infido emissario del governo che vuole cancellare l’alternativa appena costituita, ripristinando il sistema di oppressione e di prevaricazione: egli è infatti il portavoce dei proprietari delle case e dei terreni del paese i quali vorrebbero ora imporre un contratto di mezzadria ai nuovi abitanti.

Fra i personaggi di questa comune vi è Faccia Cattiva/Ventura, un giovane istruito, determinato che, dimostrando serietà e tenacia, riesce a conquistare l’amore di Siracusa e autorevolezza nella comunità. Ventura è stato fascista, repubblichino, braccato da Carlo il Calvo: ora vuole dimenticare il passato e rifare una microstoria nel villaggio appena ricostruito. Egli con acume capisce le intenzioni dell’emissario dei proprietari, indicando i modi per contrastare la sua azione.

La prospettiva con cui Vittorini rappresenta il conflitto fra vecchia e nuova storia è fondamentalmente ottimistica nell’edizione dei ’49: in questa redazione la conclusione ha sì una componente tragica, ma è nella sostanza positiva: Ventura uccide Siracusa, la ragazza con cui convive, poi si consegna alla comunità.

Riprendendo moduli stilistici ormai noti, come il rallentamento portato alle estreme conseguenze, Vittorini nell’episodio dell’uccisione di Siracusa, dà vita a una delle scene più belle dell’edizione del ’49, tutto incentrato su una drammaticità mitica, densa di valori simbolici. Il passo richiama la novella verghiana La lupa, densa di riferimenti mitici: Nanni uccide la lupa, sua suocera, che nutre un amore insaziabile per lui. Nella scena conclusiva si infittiscono motivi simbolici, come la presenza ricorrente del rosso: rosso sono le labbra della donna, gravide di sensualismo, ma il rosso è anche il segno della ormai prossima effusione di sangue, quando la lupa, cinta di papaveri rossi, simbolo dell’effimero, vittima sacrificale di un antico rito pagano, va incontro all’estremo olocausto in una perfetta coincidenza fra eros e thanatos. La vicenda della Lupa ha esercitato un’importante influenza nella produzione dannunziana sia teatrale (La figlia di Jorio), sia narrativa (Bestiame). Infine il motivo dell’incesto sullo sfondo della campagna assolata torna in Paesi tuoi di Pavese, in cui Talino uccide la sorella Gisella con risvolti tragici in cui si sprigionano le forze di un’umanità selvaggia e ferina (“Talino aveva fatto due occhi da bestia”), con una profusione di simboli come l’acqua del secchio che allude alla purezza della giovane, il sangue che inzuppa la terra e va a fecondarla, come in un antico rito barbaro, e la mammella identificata per tutta la narrazione con l’eros e la maternità, la vita. La rappresentazione del gesto omicida non risponde all’intento naturalistico di documentare i costumi rurali, ma ad antichi miti e riti ancestrali, diffusi nelle campagne.

Anche in Vittorini si avvertono, in questo intreccio di eros e thanatos, suggestioni simboliche: il momento più tragico è qui affidato all’immagine delle mucche che muggiscono, nell’istante dell’assassinio, che diventano simbolo dello “strazio delle madri”, della ferita nel cuore dell’umanità naturale e buona, che “non conosce che il proprio sangue”. Poco prima dell’omicidio, c’era stata infatti una divagazione apparentemente realistica, ma in realtà simbolica: “Ora c’erano le mucche tutte in piedi che muggivano con le grandi bocche sollevate, ed egli invece s’inginocchiò chiamando lei per il suo nome ch’era Lucia, come si chiama quasi ogni ragazza nata a Siracusa. Allo stesso modo quasi ogni ragazza nata a Palermo si chiama Rosalia”. I dati apparentemente reali passano a una dimensione assoluta: dalla Sicilia, all’Uomo, dall’assassinio di Siracusa al mondo offeso, secondo uno stilema ricorrente nella scrittura di Vittorini.

Lì per lì non si capisce il perché di questo gesto. La spiegazione non va ricercata su di un terreno realistico, ma allegorico , in quanto ricorda piuttosto l’allegoricità della tragedia greca o elisabettiana. La morte di Siracusa è il risultato del passato di violenze che Ventura ha interiorizzato dai tempi del fascismo, da cui non si è mai liberato, nonostante tutto il bene che ha fatto per il villaggio: Come Enne 2, si consegna ai cacciatori (ex partigiani) che lo cercano, si perde, ma salva la comunità: solo cancellando se stesso, con l’humus di violenza che si porta dietro, Ventura potrà rompere con il passato e far sì che la comunità continui a operare per un mondo non offeso. La sua offerta di vittima sacrificale, che va al di là di ogni rappresentazione realistica, assume il sapore del tragico, consente di scavare un abisso fra la vecchia storia di guerra e il futuro di conquista della nuova comunità. Lascia quindi un testamento spirituale alla comunità, con le indicazioni di come dovrà organizzarsi: invita i membri del villaggio a resistere, a non scendere a compromessi, ma anche a rifiutare la violenza della storia passata.

 

 

...Lui allora ricominciò a parlare dicendoci come si dovesse stare attenti coi nemici che avevamo. Dicendoci che non c’era da scherzare, ch’era una lotta senza risparmio di colpi, così disse, senza risparmio di colpi, ma che non avevam, oltre la vita, che questo: la possibilità di opporci, e di accettare la lotta, e lottare. Il resto, la possibilità un accordo, di una pace, non valeva la pena neanche di pensarla, perché sarebbe stato lasciar perdere, da parte nostra, e anzi consegnarci, così disse, consegnarci, proprio come noi si vedeva che aveva fatto lui: con la nostra vita, dicendo, che sarebbe appartenuta agli altri. – Dalle case, - ci disse, - non possono cacciarvi. Questo è un colpo che non possono più allungare, dopo appunto lotte di altri come voi... Ma disse che potevano renderci impossibile di vivere, e di coltivare, di raccogliere, spiegandoci a una a una le angherie che hanno in potere di farci, e che ci fanno, che cercano di farci, con noi che cerchiamo di impedirle o combatterle come, esattamente, ci suggerì lui”.

 

 

Nell’edizione del ’49 c’è quindi ancora un messaggio di speranza che viene meno nell’edizione del ’64, grondante di disillusioni: ora il progetto di ricostruzione del villaggio è naufragato, lasciando il posto alla proprietà privata e ai segni del capitalismo, a testimoniare che la storia di sempre con i suoi soprusi, con le sue ingiustizie, le seduzioni del benessere e del boom economico ha vinto.

 

 

Hanno luci al neon. Hanno scritte luminose. Hanno negozi che hanno aperto, oltre al circolo dell’Enal. Uno di alimentari ch’è anche panetteria. Uno di mercerie. Una drogheria. E tutte con scritte luminose... E il bar, il locale ch’era più una mescita di campagna che veramente un bar, ha una scritta in rosso su tutto il davanti, più una gialla sopra alla porta, e una azzurra in verticale sullo spigolo dell’angolo che dice Gelati Motta come lo dice un cassone a smalto che sta sull’ingresso, Motta, Motta, e ha la milanese di Milano o Motta che fa stemmasu ogni lato e su ogni gelato o semifreddo che ne viene tirato fuori estate o inverno nel suo bicchiere di carta. Ora, nel bar, c’è il frigorifero al banco. C’è inoltre un flipper con quindici scatti di punti, quindici, fino a darti la soddisfazione di vedere accendersi in centro d’una sirena una cifra milionaria. Poi c’è un gran rombo di musica che esce dal bar o dall’Enal o da tutte e due i locali insieme, canto e controcanto, di pomeriggio presto, di pomeriggio tardi, di sera, avanti e indietro ad ondate dal petto d’organo del juke-box del bar o del juke-box dell’Enal”.

 

 

Nella nuova edizione Ventura non uccide Siracusa (che viene chiamata, nella parte finale, Teresa, a evocare le convenzioni borghesi), né fugge quando i “cacciatori” lo cercano, ma si nasconde e ritorna la sera per riprendere la solita vita; anzi gli stessi cacciatori, stanchi di quel villaggio dove non c’è né frigo, né coca-cola, rinunciano poi a cercarlo. Si erano messi sulle sue tracce con tutto un apparato di macchine fotografiche, chiacchieravano, girovagavano, con un atteggiamento da turisti, preoccupandosi ben poco delle indagini.

E lo stesso Ventura diventa un antieroe, non ha più nulla da proporre, è inerte, fiacco, adeguato in un contesto dove non uomini sono tornati al potere. Così ci appare nelle parole di Carlo il Calvo:

 

 

Era comunque l’osso duro. – Finché non è risultato tutto il contrario. Molle, infingardo... Tanto da ridursi come una specie di barbone. Senza per giunta che mostri mai un po’ di voglia di tirarsene fuori... – Ma se succedeva che lo pigliavano? – Oh, se succedeva ... Mi viene da ridere a pensarci, mi scusi. Ma il fatto è che contavo che reagisse. Che si pigliasse paura e tagliasse la corda. Come potevo supporre che preferisse rischiare la pelle pur di non muoversi? – Certo che allora è andato tutto per il meglio. Debbo riconoscerlo. – Ah, sì..., Tutto o quasi tutto... Perché quanto a lui non so se non sarebbe stato meglio che fosse scappato. O che lo avessero preso e liquidato... Se penso com’è lì ora, inerte senza voglia di nulla; un uomo che poteva tenere un reggimento pontieri giorno e notte sulle scosse...”.

 

 

L’unica forma di ribellione che resta a Ventura è la rinuncia a parlare e ad agire, prendendo le distanze dal sistema capitalistico e sociale, in una paralizzante inazione.

 

 

...Lui se ne starebbe sempre alla finestra. O a fumare sdraiato sul letto. Infatti i mesi che c’è la neve non lo si vede più all’aperto. Mai che vada un momento al bar o all’Enal. Né mai che prenda la corriera per scendere in città o recarsi a un mercato, a una fiera, a una festa in qualche paese delle vicinanze ... E mai capita che pensi a migliorare il terreno. A terrazzarne le parti scoscese, ad esempio. A impiantarvi di che irrigarlo nei periodi di secco. A provarvi una nuova coltura o un nuovo modo di coltivarlo”

 

 

In questo modo Ventura rifiuta il nuovo corso storico, come ha sempre rifiutato la storia lo zio Agrippa che continua a viaggiare senza sosta sui treni nella speranza ormai vana di ritrovare la figlia. Ventura, dopo aver tentato di aprire un nuovo corso della storia, ne esce sconfitto, come a dire che non c’è altra possibilità, nell’avanzato dopoguerra di opporsi alle offese del mondo.

 

 

                                                                                              Chiara Autilio

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